Marcus Winter Cap. II

Pubblicato il da Jolly Roger

Capitolo II

Marcus Winter, conosciuto come Irish Marc, è un trentasettenne di origini irlandesi. Il nonno era un membro anziano del gruppo di fuoco Provisional Irish Republican Army.

Era il 19 agosto del 1969, sei mesi prima della nascita di Marcus, quando sua madre s’imbarcò in tutta fretta su un grosso mercantile diretto negli States, dopo che gli estremisti protestanti, spalleggiati dai reparti della Royal Ulster Constabulary, appiccarono il fuoco alla loro casa, uccidendo il padre di Marcus.Il nonno Aaron continuò a combattere strenuamente.

La leggenda narra che fu Aaron Winter a scrivere la notte del 27 agosto 1979, lungo la Falls Road a Belfast, dove si affacciano i quartieri dei cattolici: “13 gone and not forgotten, we got 18 and Mountbatten”. La soddisfazione di diciotto soldati inglesi in meno consolava delle perdite di tanti patrioti irlandesi.

Marcus aveva undici anni, quando il 31 ottobre 1981, dopo sei mesi di sciopero della fame, il nonno si era lasciato morire d’inedia nel carcere di Long Kesh.Per Marc la figura del nonno è un’icona, un esempio da seguire.
Irish Marc è un rivoluzionario, di quelli all’americana, della falange W.F.G.A, un impavido ecoterrorista.

Appoggiato al sostegno del semaforo, dall’altro lato della strada, scorgo Marcus Winter; mi fa cenno con la testa di raggiungerlo mentre si sposta all’interno di un vicolo cieco, a lato del ristorante cinese Dragonfly.

Siamo soli, sebbene la gente freneticamente transiti sulla Black Moon street.«Come hai fatto a sapere dov’ero?» domando.«È difficile non notare un fantasma in mezzo ai vivi» risponde Marcus. Dice: «Ti ho visto prima fluttuare ed entrare da Bob Smithers, volevo parlare con te a quattrocchi». Lo spavaldo Marcus si fa a un tratto calmo, si vede che ha qualcosa da dire che lo preoccupa.«Sapevo che non dovevo presentarti quello psicopatico di Willy» dice Marc, «uno che si firma con una 357 magnum non è un tipo da presentare agli amici; quando tu hai insistito dovevo mandarti rispettosamente a fare in culo. Una 357 magnum con il proiettile modificato dagli intacchi nell’ogiva può produrre un grosso foro in entrata e la devastazione in uscita. La mano di Willy è indistinguibile».«Mi ha telefonato stamattina presto e gli ho staccato la chiamata, non è servito a niente ripetergli più volte di non telefonarmi mai, per nessuna ragione» faccio presente con un tono tra il preoccupato e l’infastidito.«Cazzo, ha fatto fuori un emerito pezzo di merda e adesso tu sei coinvolto in un omicidio, perché sono sicuro che fossi lì quando è successo, ho letto il tuo dettagliato articolo» puntualizza il perspicace Marc. «Adesso la scelta migliore è che tu alzi i tacchi e vada via dalla città per un po’, è preferibile per tutti».

Sento un calore che parte dallo stomaco e ascende fino al capo; formiche schizofreniche incominciarono a zampettare alacremente sulla cute.Winter ha sempre dimostrato di avere un gran cuore. Un cuore d’irlandese, e mi è ancora riconoscente per un articolo che scrissi in suo favore e che incise positivamente sull’opinione pubblica, dopo che l’ecoterrorista rischiava una condanna per aver fatto esplodere, con del semtex, il laboratorio in costruzione di una grossa fabbrica di pellicce. Boooom!

«Domani parto per Seattle: se vuoi raggiungermi, prenota un biglietto per dopodomani, ti verrò a prendere all’aeroporto» dice Marc.«Ci penserò» rispondo. Parafrasando il Don Vito di Puzo: «Questa è una proposta che non puoi rifiutare» termina sorridendo, indirizzandomi un complice occhiolino, Marcus “Irish” Winter. Ci salutiamo con un vigoroso abbraccio all’irlandese.

Sono già le nove, è ora di coprire più di mille metri in sette minuti: meta, la redazione del giornale.

Il capo è seduto dietro la scrivania davanti al PC, sicuramente sta scrivendo articoli per i più disparati magazine. Oggigiorno anche il capo per arrotondare fa il freelance sul web, con il piglio di un cronista bohemien, saltellando di sito in sito, costringendosi a scrivere anche su stronzate per una miseria. Apro la porta scorrevole in vetro trasparente del suo ufficio, su cui è scritto, con una pittura vetrosa argentata in rilievo, a caratteri cubitali: General Editor Lucas Weard.

«Buongiorno Lucas, per qualche giorno non verrò al giornale» dico, mentre lui mi guarda con uno sguardo stranito, di sottecchi, indossando una montatura per lenti da vista modello Oxido X296.

«Addio Lucas!» è il mio veloce commiato e richiudo la porta.

Con me in ascensore c’è Patricia Miller, la segretaria della redazione gossip; ha indosso una giacca copri-abito con un colletto ad ali di rondine e dei pantaloni in lamé neri, che richiamano il colore del bavero della giacca sale e pepe. Una tuba in velluto nero ombreggia il suo sguardo marcato da un ombretto canna di fucile. Impeccabile nel suo stile gotico-hollywoodiano.

«Oh, Dio mio… cosa ti è successo? Sei reduce da una guerriglia urbana o cosa?» mi domanda, guardandomi partendo dalle scarpe insozzate e finendo sul mio viso stravolto.«Hai indovinato!» esclamo, aggiungendo: «Ho ancora gli occhi doloranti, sarà l’effetto dei lacrimogeni».«Ma davveroo?» domanda con voce stridente la donna. «Sì sì, davvero, Patricia, scusa, scappo, non vorrei perdermi il lancio delle ultime molotov» dico.«Stai attento, mi raccomando» è la materna preoccupazione di Patricia Miller. Sorrido con l’affettuosa considerazione che merita l’ingenuità e mi proietto come una scheggia fuori.

L’aria oggi è frizzante e io la respiro fino a riempire ogni alveolo, penso a Bob, vorrei chiamarlo, ma credo sia meglio che per un po’ sparisca senza dire a nessuno dove andrò; la proposta di Marcus di raggiungerlo a Seattle può essere la soluzione più giusta in questo momento di confusione.

Lampi di pazzia saettano, le radicate sinapsi si elettrizzano. Dondola la coscienza, incanalata verso un’arbitraria libertà di sofferente vitalità, alternata a momenti di mortale quiete.
Tornato a casa, sprofondo in un sonno senza precedenti. Sogno Fred Wiplock nudo; si erge sulla cima di una collina scura che eclissa il sole, le sue mani sono rivolte verso il cielo, sembra un sacerdote azteco che invoca il dio della guerra Uitzilopochtli. Su quello che prima era la sua faccia, vedo un informe intreccio di muscoli, tendini e ossa fusi insieme; una creatura risorta dagli inferi. Dal suo unico occhio rimasto scoperto cola della pece densa che lentamente scorre lungo il corpo.

Dal basso, ai piedi di quella piramide naturale, vedo i raggi dorati del sole contornare di luce la sagoma di Fred e proiettarsi alti sopra di me, bidimensionali, come in un quadro bizantino.

Fred poggia la sua mano destra sullo sterno, infilando il pollice, l’indice e il medio all’altezza del diaframma, incuneando le dita per poi aprirli a ventaglio all’interno, afferrando il cuore, estraendolo e sollevandolo al cielo, prima di flettere il gomito e scagliare l’organo nella mia direzione. Si alza alto e poi ricade come una palla da bowling, squassando la terra nera come il nulla davanti a me. Vedo i movimenti sincopati del muscolo ancora vitale.

Rivolgo lo sguardo ancora a Fred che è sull’attenti con la testa all’indietro; dallo squarcio nel plesso solare, traspare la luce filtrante dell’astro alle spalle. Un fascio luminoso, rosso sangue, m’invade come un faro occhio di bue. Alle mie spalle una mano si materializza e, poggiata sulla mia clavicola, mi tira via; è la mano di Marc Winter che trattiene nell’altra un ananas, con l’indice blocca la spoletta, la libera facendo scattare il percussore e lancia la bomba in direzione di Fred. “Senzafaccia” esplode come gelatina.

Dopo l’esplosione, Marc è sparito e io tengo per mano una bambina bionda; indossa un abitino rosa e celeste, la gonna larga, plissettata, con ricami bianchi ai margini; è scalza, sporca e mi sorride.La piccola lascia la mia mano, raccoglie il cuore di Fred e lo getta in una pozza contenente una sostanza che sembra petrolio. L’organo di “Senzafaccia” non batte più e galleggia per metà del suo volume, fino a quando, come tratto da una forza violenta, misteriosa, sprofonda definitivamente. La piccola mi rivolge uno sguardo malinconico, sorride con grazia, e voltandosi, sale, leggera, sulla collina, scomparendo oltre, nella luce.

La mattina seguente Marc è in volo, destinazione l’aeroporto di Seattle-Tacoma.

Con tag Letteratura

Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti:
Commenta il post