Marcus Winter Cap. IV

Pubblicato il da Jolly Roger

Nice 2 Meet

Capitolo IV

Mi sveglio nella mia stanza d’albergo. Della sera trascorsa al Dinner Pub l’ultima cosa che ricordo è la seconda bottiglia di fuoco irlandese, senza etichetta, che Floyd aveva passato da sotto il banco. La tragedia è che sono immemore, non mi spiego della splendida ragazza, di quel corpo nudo che dorme accanto a me. Un mistero che forse mi svelerà lei quando si sveglierà.

Verità miste a cazzate ridondanti si accavallano fino a darmi la sensazione, in questo stato, di pensare qualcosa d’intelligente: sono il sogno di libertà dalla convenzione, l’apocalittica incoscienza della mutevolezza, tutto il mio io è scaraventato nella dimensione entropica. Sono un casino, come direbbe Marc.

Ho riflessioni epiche post sbornia che rasentano il ridicolo. Comprendo adesso l’ideale di Leonida e dei suoi trecento, che affrontano il vile persiano in un lembo di terra tra la montagna e il mare. Il fato ha donato il coraggio ai pochi, perché quella lotta divenisse storia epica e la civiltà greca sopravvivesse, accrescendo la forza di un popolo e la sua volontà di conoscenza nelle forme della materia e del pensiero.

Giungo a definire una bizzarra conclusione: capisco il coraggio di Marcus che guida i suoi uomini tra la montagna d’oro, sorta dal sangue sottratto ai deboli e il mare di corruzione che, nei suoi vortici, inghiotte la purezza di ogni ideale di giustizia.

Un pensiero più sobrio s’illumina per un attimo nella mente. Marc non pone alcun limite al raggiungimento della verità intima, per lui solo nell’eternità risiede la verità, e la vita non è altro che la dedizione al suo ideale, di cui il moralismo è il nemico, e la morale è solo una convenzione, nata per disciplinare l’ignoranza dell’umana barbarie, che sopravvive in questo presente: L’“Era”… semantica invenzione di uomini ingenui o alquanto furbi che l’hanno definita “Moderna”.

Ritorno a una latente sobrietà: avevo capito cosa spinge Marc ad affrontare con sacrificio la vita che ha scelto. Marc non conosce il traviante sentimento di vendetta; ha solo una sensibilità amplificata. Prova emozioni forti, di quelle che nascono nella tempesta per poi acquisire valore nella quiete. Mi ha fatto proprio male quel fuoco irlandese.

I miei ebbri pensieri fortunatamente sono stoppati alla vista di quel corpo nudo che rappresenta l’essenza femminea normanna. Anch’io, per almeno una notte, ho avuto accanto una dea: Freyja la vichinga.

L’acqua della doccia è calda e si proietta potente sul mio corpo, quando sento la porta del bagno aprirsi ed entra lei. Con naturalezza mi guarda mentre il vapore mi avvolge, sorride e le sue labbra sono morbide. Da come mi abbraccia capisco che forse nella notte trascorsa avevo dato il meglio ma, senza ricordi, il mio è un presuntuoso azzardo.

Adesso passo dall’ebbrezza alcolica alla passione, dal post sbornia alla dolce sensualità, dal mio cuore al suo. Riverso tutto il desiderio che si può esprimere nei gesti di chi ama infinitamente, anche per un solo attimo che diventa eterno, in quella tumultuosa battaglia dei sensi da cui l’alcol esce sconfitto. Il telefono squilla, e io e la ragazza siamo umidi e ansimanti sul letto; faccio un respiro profondo e rispondo.«Hai il fiatone!» esordisce divertito Marcus.«Stavo spostando i mobili, non mi piaceva la loro disposizione» dico, mascherando l’ovvio. «Sì, anch’io, pensa, ho incollato i piedi del letto al soffitto, ora è di un comodo…» replica il simpatico rottoinculo. «Piaciuta molto Erika?». «Si chiama Erika?» domando, autonominandomi idiota dell’anno, quando mi accorgo che la ragazza mi guarda e china lateralmente la testa assentendo, accompagnando al gesto un sorriso divertito. «Cazzo… non vi siete neanche presentati?» dice ironico Marcus. «Dovresti ringraziarla per averti accompagnato in hotel, prima che cadessi a terra per la quindicesima volta».«Non mi sentivo così bene da anni» affermo. «Tu dove sei?».«Ti aspetto nella hall, dobbiamo accompagnare Erika al lavoro» dice Winter, «tu e io abbiamo da fare un paio di cose dopo». Metto giù il telefono, Erika si avvicina poggiando il mento sul mio petto, i suoi occhi sono fiamme che incendiano i sogni e i desideri profondi; ma ora, è giunto il momento di andare.«Riguardo alla notte trascorsa insieme, non ricordi nulla, vero?» domanda con una voce calda Erika mentre si riveste. La ragazza ha un timbro che non potrei mai dimenticare, ma io ero troppo sbronzo ieri sera.«Accidenti, no!» rispondo. «Non sai cosa darei per ricordare».«Peccato, per te!» esclama sorridendo l’imperscrutabile ragazza.

Ci incontriamo con Marcus, che ci dà al volo due caffè bollenti, dicendomi che le sbornie irlandesi passano prima con un aiutino. Penso che Erika sia stata molto più efficace dell’aiutino bollente di Marcus. Marc ci guida verso il suv dal quale ero sceso il giorno prima in compagnia di Gangboy. Sostiamo di fronte all’ingresso di un grande negozio di armi. Erika bacia Marc fraternamente e scende avvicinandosi al mio finestrino aperto e protende le labbra fino a sfiorare le mie.«Io lavoro qui» dice. La ragazza corre verso l’ingresso ed entra. Marcus mi chiede beffardamente: «Non mi dirai adesso che ti sei innamorato?». «Direi che ho vissuto dei bei momenti con Freyja» rispondo da sognante idiota.«Chi?» domanda stupito Marc.«Lasciamo stare… andiamo dai!» dico, accennando con il movimento della testa la strada davanti a noi.

Siamo al porto, dove ci attende uno yacht di una trentina di metri, lo scafo è blu con la tuga di un elegante beige. Saliamo dalla passerella e un uomo che a prima vista sembrerebbe il capitano ci dà il benvenuto a bordo. Le acque sono lievemente increspate da uno zefiro cortese e il sole splende maestoso, irraggiando tutto intorno. Una patinata scenografia da catalogo vacanze, di quelle ritoccate al computer. Un uomo dell’equipaggio ci saluta come se fossimo noi i proprietari di quel quartiere galleggiante, poi richiama l’attenzione di un marinaio che prontamente ci porta due bicchieri collins colmi di piña colada, guarniti con una fetta di ananas; a differenza di Marc rifiuto il mio, chiedo in sostituzione dell’acqua che ottengo in un lampo.

Marcus mi porta verso la prua, lì troviamo due sdraio, che dalla qualità della fattura e dall’imbottitura spessa, ricoperta da un tessuto in organza color panna, sembrano proprio destinate a soddisfare l’ozio.«Siamo in vacanza?» chiedo a Marc.«Se vuoi, per l’ora di navigazione che ci attende, puoi anche pensarlo» mi risponde Marcus sdraiato sul lettino con il bicchiere in una mano e il cellulare nell’altra. La telefonata è breve, Winter si limita a dire che siamo in viaggio e di tenersi pronti. Freno la deformazione professionale che mi spinge alla curiosità e lascio che il futuro si riveli. Mi godo quel momento di relax, non sapendo cosa mi aspetti su questo immenso siluro che supera i trenta nodi.

Passata l’ora, intravedo a un paio di miglia, spostata di pochi gradi a dritta, la sagoma di un mercantile. Pochi minuti e ancoriamo a un centinaio di metri dalla nave. Leggo il nome consunto dal tempo, un nome scritto in cirillico; credo Alevtina. Una scialuppa del mercantile è già in acqua e due marinai a bordo si avvicinano lentamente verso di noi, spinti da un piccolo motore fuoribordo. Marcus si alza come se fino a quel momento avesse vagato con la mente nell’iperuranio: adesso, dalla prua, osserva il mercantile. I suoi capelli al vento sono il crine ribelle di Bucefalo e il suo sguardo ha la fierezza dell’antico macedone. I miei pensieri creano similitudini bizzarre, tanto da ritenere di aver deciso bene per l’acqua. Comunque è una certezza che Marcus è nato pronto.«Tre anni fa quando feci esplodere il laboratorio di pellicce, ho fatto in modo di essere arrestato» confessa a sorpresa Marcus, mentre ha lo sguardo rivolto al mercantile. «La quantità di semtex che impiegai fu esigua e poi grazie ai tuoi articoli ebbi la tua importante prova di stima. Uscii dopo meno di un mese, ancora prima che a quel cazzone del mio avvocato fumasse il cervello, cercando d’inventarsi un’arringa efficace. Due giorni dopo il mio arresto ricevetti in carcere la visita dell’avvocato della parte avversa, era lì per propormi un patto: se gli avessi consegnato le foto originali e tutto il materiale in mio possesso che riguardava i suoi clienti, in cambio il benemerito pezzo di merda avrebbe fatto in modo di pilotare il processo, affinché io fossi scarcerato con la velocità del fulmine». «Come sapeva che tu avevi delle foto compromettenti?» chiedo.«Semplice, le avevo mandate io ai suoi clienti pellicciai, la mattina della notte dell’esplosione, assieme alla foto della maglietta che indossavo anche al momento dell’arresto» mi rivela Marcus. «Quando fui arrestato ricordo che avevo sotto il giubbotto la maglietta, era una di quelle stampate in serie di pubblicità no profit, dove era raffigurato il disegno di una volpe con la zampa sollevata, che metteva in bella mostra il medio e una headline: “Il mio manto per la tua vanità, il mio dito per il tuo culo”. I tuoi colleghi trovarono interessante fotografarmi con quella t-shirt; anche quel dettaglio fu importante per ricevere la simpatia di parecchia gente. Dopotutto, nel mio atto dinamitardo non era morto nessuno, avevo calcolato anche questo». «All’avvocato cosa dicesti?» domando. Marc dice: «Per fargli capire l’entità del materiale in mio possesso, gli dissi che se s’infilava tutto ciò che avevo fotografato e sottratto dagli schedari segreti dei suoi clienti su per il canale del diritto anale, davanti al giudice e alla giuria sarebbe diventato afasico e quindi sarei uscito ugualmente. Accettai comunque la sua proposta. Ricordo che la iena espresse una risatina soddisfatta per avere raggiunto lo scopo e poi mi disse che era la cosa migliore per tutti, bla bla bla, e che suoi clienti avevano delle conoscenze potenti e pericolose, nell’eventualità avessi divulgato anche la minima parte di quello che detenevo, e bla bla bla. Gli dissi che la sua parte da mediatore era conclusa e di andare a comprarsi un vasetto di vaselina, presto avrebbe ricevuto quello che chiedeva, da consegnare poi ai suoi clienti». «Gli consegnasti tutto quello che avevi di compromettente?» domando.«Certamente!» mi conferma Winter. «Dopo che ebbe ottenuto la scottante documentazione, feci pedinare il principino del foro. Mi riferirono che la vaselina non l’aveva più comprata; fu prevedibile la sua errata mossa… Ahi, pensai». Sorrido per le trovate colorite di Marc. «Due mesi dopo ero libero da un pezzo, quando feci una nuova incursione notturna presso lo schedario segreto dei pellicciai» continua a raccontare il granitico irlandese. «I miei informatori erano stati giorno e notte attaccati alle terga degli uomini di fiducia dei pellicciai; scoprimmo dove i galoppini preposti alle schedature di quegli scottanti documenti portavano i fascicoli segreti. Lo schedario si trovava al quattordicesimo piano dell’ Inn Tower, dietro una parete scorrevole. Riuscì ad aprirla grazie a un decodificatore costruito da un nostro tecnico informatico che ha la passione per gli allarmi come Harry Houdini aveva quella per le serrature. Inviai un segnale di sblocco a bassa frequenza, codificato da un ricevitore che scoprii dietro a un quadro. Il sistema d’allarme fu difficile da eludere, ma non impossibile; stavolta quello che sottrassi e documentai fu la vera bomba per distruggerli definitivamente. Tutto finì su internet, oltre che nelle redazioni delle maggiori testate giornalistiche in tutta Europa. Nel dossier c’era tutto; conti cifrati di depositi presso banche europee e in paradisi fiscali dai nomi esotici. Riportai alla luce i documenti firmati dai genetisti, con l’intestazione dell’azienda, comprovanti le manipolazioni genetiche compiute senza rispettare leggi, regolamenti e codici etici. Aggiunsi gli indirizzi dei laboratori segreti di cui non si sospettava neanche l’esistenza. Per non parlare dei contratti stipulati da una società fittizia, collegata a loro, con alcuni allevatori cinesi che fornivano le pellicce di animali protetti da leggi internazionali. Documentai tutti i passaggi in cui gli animali erano scorticati vivi, perché è più semplice lo scuoiamento, e delle pelli vendute in transazioni illegali, sotto banco, a importanti case di moda, soprattutto in Europa. E ancora schifo, schifo e altro schifo… portai tutto a galla». Riesco solo a inserire tra il suo racconto una parola: «Cazzo!». «I loro legali non furono in grado di far nulla per loro, se non comprare un tir di vaselina e tentare inutilmente di nascondere nel loro, se pur capiente stomaco, quello che ero riuscito a riportare alla luce in quell’impresa» termina Marcus. Marc con questo racconto sembra voglia prepararmi alla scoperta dell’inimmaginabile.

Quest’uomo mi stupisce sempre meno, perché ho capito che lui è il perno su cui ruota qualcosa di grande; più grande di quanto immaginavo e lui sembra non preoccuparsene. Marcus non è il tipo che vuole dimostrare al mondo di essere qualcuno, desidera rimanere anonimo, sottovalutato, ma nello stesso tempo gli è riconosciuto l’immenso rispetto che in questi pochi anni si è guadagnato tra i suoi. Marcus, rinchiuso dentro un guscio di noce, si sentirebbe ugualmente sovrano di un regno infinito. Il talento in fondo non è una bandiera da sventolare, ma un sole nascosto, nato dall’alchemica unione della mente con il cuore, la nike dell’anima.

Ciò che a Marc è stato sottratto dal destino spietato gli è stato restituito, con gli interessi dalla natura benevola, ma in forma diversa. Dalla barca attraccata al lato della poppa, salgono a bordo i due marinai. Appena sullo yacht, sono accompagnati in coperta da un nostro uomo; Marcus intanto salta sul loro natante.«Sali, dai!» mi esorta l’amico. Scosto delle cime che m’impediscono il passaggio e salgo finalmente. Un marinaio distanzia la nostra barca dal parabordo dello yacht con una spinta ben assestata grazie all’ausilio del mezzomarinaro. Per abbrivo ci scostiamo di un paio di metri, prima che Marcus riaccenda il motore e viri in direzione del Alevtina. Marc spinge il venticinque cavalli al massimo e galoppiamo sulle onde lunghe, finché affianchiamo a tribordo il mercantile. Dall’alto i marinai calano una cima con legata una valigiona metallica. Marcus appoggia sugli scalmi i remi e attendiamo.

La grossa valigia è arrivata e si ferma a un paio di metri dalla superficie dell’acqua. La cima nella quale è agganciata rimane in tensione e, a un paio di metri dalla superficie dell’acqua, dondola il bagaglio. Un sussulto repentino mina per un attimo il mio equilibrio; il mio compagno ha immerso le pale dei remi e fa avanzare a scatti il nostro guscio. Marcus fende il brodo marino con energiche e controllate remate, finché non ci troviamo sotto il valigione penzolante. Lo afferriamo, e gli uomini mollano con attenzione la custodia di chissà quale misterioso tesoro. Dal peso potrebbe essere piena di dobloni, dico con tono sforzato a Marcus mentre poggiamo la pesante custodia al centro del natante. Winter apre il moschettone e libera la cima, che è issata in un baleno dai marinai. Tolgo i remi dagli scalmi e ci dirigiamo con il motore al massimo verso lo yacht.«Mi dici cosa contiene la valigia?» domando.«Hai mai sentito parlare dell’idrazina?» replica alla mia domanda Winter. «Non vorrei sbagliarmi, ma se ricordo bene è contenuta nel combustibile degli aerei» rispondo.«Non ti sbagli!» afferma Winter. «Hai comprato un jet?» domando scherzoso.«No, voglio solo creare un composto chiamato astrolite e concimare il mio orticello per ottenere pomodori esplosivi» è la risposta svagata di Marcus.Sono convinto che avrò molto da scrivere in gattabuia.

Giunti allo yacht ci aiutano a scaricare il bagaglio. I due marinai del Alevtina riprendono possesso della loro barca, portandosi dietro una valigetta nera, che uno di loro posa con cura in un angolo, prima di fare rotta verso il mercantile. Marc entra con il comandante in plancia, mentre io mi godo il viaggio del ritorno.

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