Marcus Winter Cap. V

Pubblicato il da Jolly Roger

Incontri reali

Capitolo V

Appena arrivati in porto, Marc dice che le chiavi del suv le ha consegnate al comandante, penserà lui a far recapitare il nostro carico a destinazione. Adesso ci toccherà una bella camminata, penso.

Ci dirigiamo a poca distanza, verso un vicolo, dove noto un’insegna: “Mai Si Sok Tod Thay”.Entriamo in una palestra fatiscente: dal soffitto, macchiato di muffa verde e ossidato di giallo, penzolano una decina di sacchi da boxe, la maggior parte logori. Al centro c’è il ring, dove un uomo di circa sessant’anni, protetto solo da un giubbino paracolpi, è bombardato di calci e di ginocchiate energiche da un ragazzo.«Stai sempre a incassare, Tod» dice Marcus, rivolgendosi all’uomo. L’uomo schiva con grande naturalezza un paio di colpi del ragazzo e gli fa cenno di sospendere l’allenamento.«Dopo tre mesi ti fai vivo!» esclama Tod. «Pensavo fossi diventato concime per le erbacce».«Non è ancora venuto il mio momento maestro» afferma sorridendo Marcus.«Hai ancora la tua roba nell’armadietto Marc, spero per te che ricordi ancora la combinazione» dice Tod. «Mi farei volentieri un paio di round con questo mio amico; passagli il tuo giubbino e i guantoni» replica Winter guardandomi e accennando un sorriso partecipe.«Poi i tuoi armadietti, per dirla tutta, fanno prima a scassinarli che perderci il tempo ad allineare i numeri» è l’ironica ripresa di Winter. Tod lancia l’occhiata severa del padre che ammonisce la stupida spavalderia del figlio adolescente. Tod mi passa la sua tenuta da combattimento, mentre guardo la sua faccia, incuriosito. Marcus si dirige verso una porta che presumibilmente immette negli spogliatoi. Io intanto mi tolgo la giacca a vento e indosso, con l’aiuto di Tod, il corpetto e i guantoni; penso che questa cosa di combattere con Marcus sia adrenalinica e anche un po’ ridicola, ma non voglio certo tirarmi indietro.

Mentre Tod mi aiuta, noto ancora più chiaramente delle cicatrici sulla sua faccia che testimoniano delle ferite profonde; noto che i punti di sutura erano stati dati in modo da riuscire almeno a chiuderle, per via che i pezzi di pelle e di carne erano sicuramente saltati via.«Stai guardando la mia faccia?» dice Tod, guardandomi di sottecchi, mentre mi infila il secondo guantone. Il sorriso dell’uomo è duro e i suoi zigomi si alzano, evidenziando ancora di più gli antichi tagli.«Scusa, ma è difficile non notare le tue cicatrici» rispondo francamente.

***La storia di Tod***

Tod mi racconta di un neonato dentro un canestro di paglia intrecciata abbandonato all’interno di un tempio buddista. Fu trovato da Michaj Thay, un maestro di Mai Si Sok, l’antico nome di quella che banalmente gli occidentali chiamano boxe thailandese. Il maestro prese il fagottino e portò a casa sua il neonato.

Lo chiamò Tod, poiché era l’unico nome occidentale che conosceva. Quando crebbe, il maestro gli insegnò la disciplina e le tecniche di lotta. All’età di vent’anni, Tod divenne un maestro e fu selezionato per un combattimento rituale. Le sue mani furono avvolte con delle stringhe di cotone e poi bagnate sul dorso con della resina e infine poggiate con forza su cocci di vetro che aderirono al collante. Mi racconta l’uomo che fu un onore lottare e vincere, ma il prezzo furono i profondi segni sul volto, che ricordano quel momento di gloria.

Alla morte del padre adottivo, Tod andò in Olanda per combattere in competizioni internazionali; guadagnava molto, ma non amava quell’ambiente, dove il business falsava lo spirito del guerriero.

Lo spirito della lotta è di rendere omaggio agli dei e non al denaro, questo gli aveva trasmesso il maestro che l’aveva allevato. Così un giorno, dopo un torneo organizzato a Seattle, decise di fermarsi e terminare la sua carriera definitivamente.

***Tod e Marcus***

Tod mi rivela che Marcus era un suo allievo già da piccolissimo; scappava dall’orfanotrofio e veniva a vedere gli allenamenti, quando un bel giorno il maestro decise d’insegnare a quel piccolo timoroso ragazzino l’arte che suo padre aveva insegnato a lui.

Oramai adulto, mi racconta l’uomo, Marc è spesso venuto a trovarlo, qualche volta anche per allenarsi. Marcus Winter non ha mai combattuto per sport, solo per difendere la sua vita nei difficili quartieri in cui bazzicava.

«Sono felice che quello che gli ho insegnato è servito» sono le parole conclusive del racconto di Tod Thay.

Dal racconto di Tod scopro che Marcus Winter ha vissuto l’infanzia in quei luoghi e quasi sicuramente è nato a Seattle. Prima che Winter rientri, l’uomo mi rassicura su quello che sto per affrontare, dicendomi di non preoccuparmi, vorrà solo testarmi, non farmi del male. Sento formicolare le dita dei piedi e le mani stanno diventando insensibili. Che inizi pure la danza, io ricorderò fino all’ultimo di aver ballato. Il battito del mio cuore ritma l’inno dell’incoscienza.

Di fronte a me sul ring c’è il lupo che mette alla prova la mia tempra, io non sono preparato, ma pronto… credo. Marc indossa solo dei pantaloncini rossi e le mani e i piedi sono fasciati con delle bende. M’invita ad attaccarlo, a non esitare a colpirlo. Appena mi muovo, lui mi spiazza con una schivata e mi ritrovo già con il culo sul tatami. Marcus non colpisce, si diverte a schivare i miei colpi. Ho l’impressione di inseguire una gallina. Una gallina di settantacinque chili che non prova neanche a beccarmi.

Mi lancio su di lui, ma riesco solo a rimbalzare sulle corde. Capisco che in quel momento si sta divertendo, anche se mantiene un’espressione seria e concentrata, ma sa che io mi sentirò meglio dopo.

Mi colpisce a un fianco con un calcio che sento potente, che il corpetto attutisce.

Dopo aver dato una dozzina di pugni e calci all’aria, sono esausto, gli dico che mi arrendo; Marcus mi fa capire che la resa è inaccettabile, facendomi volare letteralmente con un calcio verso l’angolo. Al mio corpo ammaccato ritornano gli automatismi dei miei tre miseri anni di Jujitsu e dimostro a Marc che non sono poi così sprovveduto, quando, finalmente, faccio andare a segno un calcio che colpisce il mio amico alla gamba, facendolo cadere a terra. Era quello che voleva, vedermi rialzare e andargli incontro senza paura.

Sento dolori in tutto il corpo, ma sto da dio e ho una fame da sbranare un toro. Tod ci porta in un ristorantino dall’aspetto rustico, affacciato sul porto. Dopo lo scontro con Marcus i miei sensi sono amplificati, compreso il gusto; Tod mi guarda mangiare con appetito e sorride. Sa cosa provavo sul ring di fronte a un avversario per me imbattibile. Sensazioni in cui senti scorrere la vita nelle vene… e tutto, tutto è diverso.

Nice 2 Meet

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