Marcus Winter Cap. XIV

Pubblicato il da Jolly Roger

Capitolo XIV

Il nostro covo è un grande edificio che fino agli anni ‘80 era un albergo a ore. La base è ampia e disadorna e in questo spazio che usiamo per organizzare i nostri piani c’era la hall. Una doppia rampa di scale di ferro e legno porta a un ballatoio soppalcato, dal quale si accede a un corridoio e alle tredici camere, utilizzate a turno da noi.

I nostri compagni si avvicendano da due giorni nel covo. Marc predispone ogni dettaglio del piano. Abbiamo lasciato le donne ben protette da Thunder e Storm sullo yacht. Marc ha preferito allontanarsi per evitare possibili guai alle ragazze. Uno dei nostri informatori ha riferito che gli uomini di Barnett e del giudice sono arrivati all’aeroporto, accolti dai due tizi alloggiati all’hotel Sorrento e da Willy. Consumiamo i pasti tra mappe e piantine, con i punti strategici segnati in verde, rosso e blu. Al muro sono appese varie carte di progetti d’impianti d’illuminazione e di sistemi d’allarme. Sulle pareti, quattro grandi lavagne sono aggiornate ogni giorno con data e ora delle missioni. Molti scritti sembrano più complicati da decifrare del demotico antico. Tutti si danno da fare, in particolar modo Gangboy, il più attivo di tutti. In un momento di calma chiedo a Winter come mai Gang è sempre così serio e impenetrabile. Marc mi racconta la storia di Gangboy.

***Gangboy***

James Harker e Marcus Winter sono cresciuti nell’orfanotrofio di Santa Chiara. La vita non fu facile per dei reietti senza famiglia. A diciassette anni James entrò in una banda. Tra le file del clan il ragazzo si fece le ossa e si guadagnò il soprannome attuale e sopratutto un grande rispetto. A vent’anni era già il capo di una gang che proteggeva il suo quartiere dalle incursioni dei musi sporchi, una banda di disperati che mettevano a ferro e fuoco il sobborgo. L’intenzione dei musi sporchi era d’intimidire gli abitanti e costringerli a vendere a prezzi irrisori a una multinazionale, cui interessava la zona per realizzare dei quartieri residenziali. Gangboy, alias James Harker, spazzò via la banda avversaria e, poco dopo, Marcus lo convinse a unirsi ai WFGA, fino a diventare un indispensabile elemento del progetto ARMED FOR LIFE.«Quando siamo con Gangboy all’aeroporto» dice Marc, «ci divertiamo al controllo bagagli; quando tocca a lui passare dal metal detector, una volta su due, una delle tre pallottole che si è beccato, e che ha ancora dentro, fa suonare l’allarme. Lui in quel momento ci guarda ridendo mentre lo scandagliano, non riuscendo a trovargli addosso neanche uno spillo. Una volta un poliziotto convinto di aver trovato la soluzione del dilemma, cercò di convincere i colleghi che il nostro Gang aveva troppo ferro nel sangue».

Siamo giunti al terzo giorno e Marc mi avverte che Stan Wiplock è in città; è arrivato il momento che io vada a incontrarlo per l’intervista. Creo una scaletta delle domande che Marc vorrebbe sottoponessi a Wiplock. Uno dei nostri uomini arriva correndo e mi avverte che la macchina è già sotto per accompagnarmi da lui. Prima di andare, Marcus mi rivela che Stan Wiplock non sa nulla del mio coinvolgimento nell’omicidio del nipote. Marc dice che io sono stato un elemento importante in questa vicenda ma, per ragioni che capirò in seguito, mi devo solo limitare a intervistare il giudice, con la serenità di un qualsiasi giornalista. Marc dice che grazie a me l’ingranaggio gira nel giusto senso, da quel giorno in cui mi fu presentato Willy; adesso non devo temere nulla. Faccio presente che se Willy ha parlato di me al giudice, Wiplock fra poco saprà che anch’io sono a Seattle. Io sono fottuto. Marc dice di non preoccuparmi; Willy non ha parlato di me. Mi fido di Marc, ma non capisco come faccia a sapere che Willy non abbia sciolto la lingua con il giudice riguardo al mio coinvolgimento.

Adesso la cosa più importante è dare un significato al mio ruolo, aiutare tutti questi uomini che lottano per qualcosa di fondamentale, più importante anche della mia stessa vita. A volte penso… chi me l’ha fatto fare.

Con un taxi arrivo davanti all’ingresso dell’hotel Sorrento: un uomo si avvicina all’auto e mi chiede se sono venuto a intervistare il giudice. Gli dico di sì e l’uomo mi chiede se posso fargli vedere il mio tesserino di giornalista. Gli mostro il documento e il tizio mi accompagna nell’appartamento royal, dove trovo il giudice assieme a tre uomini. Sebbene Marc mi abbia assicurato che andrà tutto bene, sento le scariche dell’adrenalina che barbara invade il mio corpo.

Wiplock mi viene incontro, ci presentiamo con una stretta di mano e m’invita a sedere su una poltrona di velluto beige con righe in rilievo rosa antico. Il giudice si siede di fronte a me sull’altra poltrona gemella.«Bene» esordisce Wiplock, «sono lieto che la nostra stampa abbia mandato un suo rappresentante a interessarsi della mia venuta a Seattle. Immagino vorrà sapere quali sono i nostri obiettivi congiunti con la corte di Washington riguardo alla lotta alla criminalità». «Una delle domande è appunto questa giudice Wiplock» dico mentendo, «se non le spiace seguirei la scaletta, in modo che la nostra intervista sia più completa» replico. «Ne ha tutto il diritto, la prego, segua pure la sua scaletta» dice il giudice con un atteggiamento gentile di celata arroganza. Inizio l’intervista rivolgendo la prima domanda: «Lei, come presidente della corte, ha la responsabilità di giudicare gli imputati per uno dei più grossi scandali di questi ultimi dieci anni, mi riferisco alla Barnettpharma. Qualcuno ha ipotizzato, a ragion veduta, che molte prove dell’accusa sarebbero sparite e che la difesa stessa abbia tratto vantaggio da questo, contrattaccando l’accusa e chiedendo i danni morali per diffamazione. La stampa stessa ha indagato confermando le prove dell’accusa ed è stata citata in giudizio per calunnia. Giudice Wiplock come vede questo fatto di considerevole gravità?».«Io credo che qualcuno, mi riferisco a entità estremiste, cerchino di ledere il buon nome della Barnettpharma, lanciando delle accuse cui la stampa ha prestato fede allo scopo di aumentare le vendite dei giornali» risponde Wiplock con una faccia da culo bronzeo. Domando: «Se così fosse allora, le prove pervenute ai giornali e la documentazione sui farmaci, testati sugli animali ma inefficaci sull’uomo, non avrebbero rilevanza?». Aggiungo: «Farmaci pubblicizzati come miracolosi, tipo l’Hergul-02, su cui molti pazienti hanno contato, giacché della categoria dei farmaci salva-vita, sono però stati più dannosi che efficaci». Affondo, celando l’ironia: «Sono quindi invenzioni per screditare l’azienda?».

«Conoscere i metodi usati nella produzione dei farmaci dalla Barnettpharma non è di mia competenza» risponde Wiplock. «Il mio ruolo è visionare le prove quando queste sono avanzate dall’accusa e, d’altro canto, dare il giusto rilievo alle logiche della difesa. Francamente penso che i giornalisti siano molto ingenui, o peggio, in mala fede, quando vogliono trovare gli scandali solo per i loro scoop».«L’ex procuratore Trevis asserisce che i Barnett sono suoi intimi amici, cosa può dirmi in proposito?» domando. «Altra falsità… frequentare lo stesso club di golf non implica né amicizia né intimità» risponde Wiplock, polemizzando, «se invece vuole chiedermi più correttamente se li conosco superficialmente, posso dirle di sì.  Sono assidui frequentatori del club, ed è naturale che si arrivi per lo meno a una semplice conoscenza. Mentirei se asserissi il contrario». Mi accorgo che Wiplock incomincia a innervosirsi e gli faccio la domanda che si aspettava gli facessi all’inizio: «Riguardo alla criminalità, pensa che le leggi siano efficaci per contrastare questo fenomeno sempre più preoccupante?». «Il nostro sistema giuridico è tra i più evoluti al mondo» dice il giudice, parlando a ruota libera, «la criminalità si combatte con sacrificio e dedizione. Un maggiore rigore però sarebbe la migliore arma per colpire efficacemente il fenomeno. Alcune organizzazioni, che definirei vere e proprie bande, hanno lo scopo di minare le basi dell’ordinamento costituito e vanno combattute con forza e inclemenza. Tra pochi giorni sarò il relatore della conferenza sul crimine e la sicurezza a Washington e posso garantirle che dirò la mia affinché le leggi tutelino più efficacemente i cittadini onesti da queste piaghe sociali… bla bla bla».

Mentre Wiplock parla di come contrastare questo e quello, di come avrebbe agito per il bene della società, il suo blaterare diventa fastidioso all’ascolto; decido di non seguire più il suo discorso retorico e ipocrita. Rivolgo la mia attenzione a un quadro che rappresenta una scena di caccia: due alani bianchi inseguono un cinghiale che scappa, portandosi dietro una lancia conficcata in un fianco; due cavalieri in abiti trecenteschi, su due destrieri bardati, osservano la scena. Il mio interesse cade su uno degli scudieri che impugna una lunga asta; sulla punta casca un drappo cui è effigiato il giglio del gonfalone di Firenze.

Mi viene in mente che il fiore non è in realtà un vero e proprio giglio, ma un iris, facente parte dello stesso gruppo botanico. L’iris florentia, dal colore bianco venato di azzurro, oramai quasi estinto in Toscana. Un magnifico fiore che ha pagato l’inesorabilità del tempo, e costui davanti a me che continua ad articolare parole credendo di essere inestinguibile. Al giudice sorrido beatamente, pensandolo come una pianta carnivora che subirà la stessa fine del giglio del quadro. Mi accorgo che Wiplock ha finalmente smesso di muovere quel taglio privo di labbra, che caratterizza la parte esterna del suo apparato che comunica il nulla.

Mi preparo a fargli una domanda, per me difficile ma importante: «Riguardo alla morte di suo nipote Stan, immagino sarà stato un duro colpo per lei; sappiamo che l’esecutore dell’omicidio si è impiccato. Non si è però capito bene il movente che ha portato Folley al delitto; lei si sarà fatto un’idea…».

«Sappiamo che Folley e Stan avevano avuto diversi scontri» rileva Wiplock, continuando con un tono all’apparenza sincero. «Purtroppo mi pento di non essere stato molto vicino al mio sfortunato nipote, anche se non condividevo il suo stile di vita diciamo alquanto stravagante. Certamente non meritava di fare quella fine. Un morto merita comunque rispetto e il resto non ha più importanza. Pace alla sua anima».

La distensione di Wiplock è rivoltante, sapendo che era stato proprio lui a dare il via libera a Willy affinché il suo degno nipote facesse la fine che meritava. Ripenso a quella sera in cui mi convinsi di vedere Stan che se ne tornava a casa con le mutande piene e puzzolenti, invece di finire in quel modo.

«Come mai si trova qui a Seattle giudice?» domando.

«Per una breve vacanza, prima di recarmi a Washington» risponde Wiplock. «Questa città ha un grande fascino e voglio godermi qualche giorno tra le sue vie, dedicarmi alla scoperta dei luoghi d’interesse che ancora non ho visitato… farò il turista!» ultima Wiplock, esprimendo un sorrisino che vuole apparire simpatico. Dico al giudice che la mia intervista è terminata e gli auguro una buona permanenza.

Prima di uscire, Wiplock mi chiede se rimango anch’io a Seattle; rispondo, mentendogli, che devo prendere il primo aereo e ritornare al lavoro. Ci salutiamo seguendo i canoni della buona e formale educazione. Sento come un senso di liberazione appena fuori dall’appartamento.

Giù ad aspettarmi c’è una macchina nera, l’uomo che mi aveva chiesto il tesserino all’entrata mi apre lo sportello posteriore e m’invita a salire. Penso… sono fritto!Il gentile tizio richiude la portiera. L’uomo alla guida ha un cappello australiano nabuk color deserto. Appena girato l’angolo, l’autista sposta lo specchietto retrovisore centrale e mi osserva di riflesso. Riconosco i suoi occhi. «Com’è piccolo il mondo… ci si rivede, eh?» esordisce Willy. «Porca puttana!» esclamo.«Tranquillo amico, devo solo accompagnarti all’aeroporto» dice Willy.

Faccio il tragitto con Willy, insieme all’angoscia di aver chiuso definitivamente la mia avventura su questo mondo. Il killer inserisce la mano destra all’interno del giubbotto e penso: “Ecco ci siamo!”. Mi stupisco quando, invece, estrae una busta e, passandomela, mi fa segno di nasconderla addosso. Accende la radio e mi chiede di avvicinarmi a lui; mi sussurra di consegnare la busta a Marcus. Sembra che Willy non abbia nessuna intenzione di farmi diventare un buon pasto per i vermi. Accendendo la radio e parlandomi all’orecchio credo tema che ci siano delle cimici nascoste nell’abitacolo.

Willy mi lascia davanti all’aeroporto. Una donna con un tailleur nero, mai vista prima, mi viene incontro e m’invita a seguirla all’interno; mi accompagna in direzione degli imbarchi, finché si ferma e m’indica di aspettare lì qualche minuto; mi dice poi di entrare nella toilette che si trova al lato sinistro dell’uscita.

All’interno dei bagni trovo un uomo che ha le mani a cucchiaio sotto un asciugamani elettrico che produce un rumore d’inferno. Il tipo mi osserva dallo specchio e noto che mi è molto somigliante; ha la mia stessa corporatura, circa la mia età e il volto ha gli stessi lineamenti regolari. Incrocio lo sguardo riflesso del tizio che fa cenno di andare nell’ultimo cesso. Con timorosa attenzione, scosto la porta e guardo all’interno prima di entrare. Vedo al lato destro della tazza un sacco nero, riguardo l’uomo che mi fa segno di entrare. Mi chiudo all’interno e apro il sacco, ci sono dei vestiti e un impermeabile, un cappello e una barba posticcia, un paio di occhiali e uno specchio. Trovo anche un biglietto su cui è scritto: “Cambiati, lascia i tuoi vestiti e i documenti all’interno del sacco. Camuffati, esci dal wc e dirigiti verso l’uscita più vicina. Appena uscito, vai verso il cartellone pubblicitario della schiuma da barba, lo vedrai subito di fronte, entra nello spywagon posteggiato sotto. M.W.”

Indosso i vestiti e appendo lo specchietto a un chiodino ficcato nella porta, tolgo la pellicola che protegge la striscia adesiva di questo cazzo di barba finta che non riesce ad aderire alla mia faccia. Ho fretta di uscire da lì. Bagno le dita nell’acqua del cesso e le sfrego sulle guance. Riprovo a mettermi la barba che stavolta rimane attaccata. Mi specchio nuovamente e il mio aspetto presenta una sufficiente credibilità. Occhiali e cappello fanno il resto.

Esco da quel claustrofobico metro quadrato e l’uomo di prima mi dice di andare rapidamente verso l’uscita ed entra al mio posto, dalla fretta che ha, sembrerebbe proprio che gli scappi. Sono fuori e vedo il cartellone con un faccione di un bell’uomo che si rade con Jetline: “Barba perfetta in un lampo”. Pensando alla mia, incollata alla faccia, mi scappa da ridere, ma mi trattengo, evitando che il camuffamento si distacchi dalla pelle in un, diciamo, lampo.

Mi dirigo celermente verso lo spywagon, dove trovo Ura, mentre Sulu è alla guida. La ragazza mi passa una giacca a vento, di quelle che solitamente si utilizzano sulle barche e dice che posso anche rimuovere il travestimento. Mi ritrovo per la seconda volta sulla plancia dell’Enterprise che viaggia a velocità impulso di 0,0000000070, verso l’ignoto… credo.

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